17 Dicembre 2015 ARTICOLI

Alda Trifiletti

Dottoressa Alda Trifiletti, specializzata in Glottodidattica Infantile alla Sapienza di Roma titolare del centro linguistico The Bilingual Bridge di San Mauro Torinese, insegna inglese a bambini e ragazzi, strutturando percorsi personalizzati e utilizzando il metodo Hocus&Lotus, Jolly Phonics ecc.. , fornisce consulenze agli istituti scolastici per implementare progetti di bilinguismo.

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Ospitare un au pair: un’esperienza educativa per tutta la famiglia

Ospitare un au pair in famiglia

L’anno scorso ci eravamo soffermati ad esaminare le idee che il mercato propone da regalare a Natale e che promettono risultati di bilinguismo nei confronti dei nostri figli. Quest’anno proponiamo qualcosa di atipico: e se la famiglia decidesse, proprio in occasione del Natale, di effettuare un investimento per se stessa ed i propri figli che andasse oltre l’acquisto di giochi, app e cose di questo genere?

Quale potrebbe essere l’investimento per favorire l’apprendimento di una seconda lingua da parte dei nostri figli? Una delle risposte potrebbe essere ospitare un au pair per qualche mese.

Decidere di ospitare un au pair non è di sicuro una scelta banale, ma è un passo che va ponderato e condiviso con tutti i membri della famiglia, nessuno escluso! Questa scelta è, oltre che un’esperienza linguistica, un’esperienza educativa per cui si può essere o meno predisposti, quindi prima di prendere la decisione è necessario documentarsi e analizzare per bene i proprio “limiti” caratteriali e familiari per non rischiare di effettuare una scelta azzardata.

Sul come fare, basta cercare su Google e si possono trovare agenzie on-line che si occupano di favorire l’incontro tra la domanda delle famiglie ospitanti e l’offerta di ragazzi/e che optano per questa esperienza e che gestiscono la parte burocratica del rapporto; inoltre si trovano pareri, formulari, informazioni sugli aspetti più disparati che spaziano dalle riflessioni preliminare sul “se” e “quando” a quelle più pratiche sul “come” e “quanto”.

Mentre sul piano linguistico i vantaggi sono evidenti: per un periodo di vari mesi i bambini si trovano esposti quotidianamente ed in maniera del tutto “naturale” alla seconda lingua. Niente traduzioni, nessuna reticenza riguardo alla confusione o meno, una fortissima motivazione ad utilizzare la seconda lingua perché l’au pair non capisce e non parla italiano! Il principio di apprendimento OPOL (one perso none language) cui abbiamo più volte fatto riferimento si estrinseca alla perfezione ed al 100%. In più le attività dei bambini sono abbastanza routinarie, di conseguenza, come detto più volte, la ripetizione della stessa situazione quotidianamente favorirà l’apprendimento linguistico in un contesto conosciuto dal bambino.

Prima di imbarcarsi in questa impresa tuttavia non va sottovaluto l’aspetto psicologico dei nostri figli, perché laddove ci fosse un netto rifiuto per la persona che si ospita allora la motivazione a comunicare con lei verrebbe minata pesantemente. Se i nostri figli non sono pronti a questi passo potrebbe convenire attendere qualche mese lavorando molto sulle loro motivazioni che determinano il rifiuto a priori con l’obiettivo di limarle.

Al di là delle mie parole riguardanti al teoria, mi pareva opportuno offrirvi la testimonianza di una famiglia che ha ospitato una ragazza alla pari per il periodo estivo durante il quale si è presa cura dei bambini.

Lascio la parola a Stefano, papà di Federico 7 anni e Monica 4 anni, che insieme a sua moglie Luisa ha deciso di optare per questa esperienza.

Perché avete deciso di ospitare una au pair nella vostra famiglia?

Le motivazioni sono state fondamentalmente due: avere una baby sitter che potesse aiutarci nella gestione dei bambini durante il periodo delle vacanze estive ed esporre i nostri due figli alla lingua inglese. Ci è sembrato che la soluzione di ospitare una ragazza alla pari potesse essere ideale. In questo modo i due bambini (sette e quattro anni) hanno avuto persona che si è dedicata pienamente a loro, permettendoci di conciliare gli impegni lavorativi con il periodo di sospensione scolastica. Contestualmente, proprio grazie al fatto che l’au pair fosse una sorta compagna di giochi, si è creato quel vincolo affettivo che ha permesso ai bambini non solo di accettare una persona English speaking, ma anche di fare quello sforzo mentale di cercare di comprendere ed utilizzare l’inglese come lingua per comunicare con lei. Ovviamente il processo non è stato immediato, ma devo dire abbastanza rapido e con esiti molto positivi.

Per due mesi l’inglese è diventato la lingua ufficiale della nostra famiglia ed ora per i bambini l’utilizzo dell’inglese nelle conversazioni è diventato un fatto normale.

E’ solo una “questione di lingua” o la consideri un’esperienza educativa per la famiglia?

Si è trattato sicuramente di un’esperienza educativa per tutta la famiglia. Ci siamo confrontati con una persona di un altro paese e di un’altra cultura e, a nostra volta, le abbiamo fatto conoscere la nostra, mettendo un pezzetto di Italia dentro di lei. Ma soprattutto ci siamo messi in gioco come famiglia, integrando nella nostra quotidianità un’altra persona, una ragazza di poco più di vent’anni, quasi una figlia più grande per noi genitori e una sorta di sorella maggiore per i nostri figli.

Secondo te quali caratteristiche deve avere la famiglia ospitante per contribuire a rendere questo tipo di esperienza un piacere reciproco?

Occorre essere aperti e disponibili. E pazienti. Si tratta di una ragazza che, per quanto consapevole della scelta effettuata, si trova catapultata per un arco temporale abbastanza lungo in una realtà e in una cultura per lei sostanzialmente estranee. Bisogna dedicarle del tempo, darle delle regole, spiegarle il funzionamento della routine familiare e introdurla gradualmente fino a farla diventare a tutti gli effetti una componente della famiglia.

Oggi Skype facilita parecchio le selezioni. Voi come avete “sentito” che la au pair che stavate intervistando era quella adatta a voi?

Il processo di selezione dell’au pair ha visto la proposta da parte dell’agenzia di diversi profili coerenti con il nostro profilo familiare e le nostre esigenze. La presentazione che la au pair fa di se stessa nella propria scheda è un primo importante elemento di valutazione. I successivi scambi di email permettono una migliore conoscenza reciproca in modo da arrivare all’incontro via Skype con un’idea abbastanza definita della ragazza. Con Skype si effettua un vero e proprio colloquio di selezione. Si valuta la persona, la sua disponibilità, il suo grado di maturità. Se poi si vede che durante la conversazione si instaura quella corrente di simpatia che la rende piacevole, allora capisci di aver individuato la persona adatta.

Quanto conta la fortuna?

Penso che la fortuna conti relativamente. Innanzitutto chi si propone per un programma au pair vuole fare un’esperienza all’estero e sa che dovrà avere a che fare con dei bambini e quindi è già predisposta all’esperienza che la aspetta. Inoltre il processo di selezione ci permette di trovare la persona potenzialmente adatta. Ma poi dipende soprattutto da noi riuscire ad includere l’au pair nella famiglia ed instaurare così una relazione affettiva costruttiva e arricchente per tutti.

A chi consiglieresti questo tipo di esperienza e a chi invece non la consiglieresti?

Vi sono vari aspetti da considerare. Il primo è quello logistico in quanto occorre essere in condizioni di mettere a disposizione una stanza della propria abitazione per l’au pair. In secondo luogo è opportuno che almeno un componente della famiglia conosca l’inglese. Terzo è importante sapersi organizzare, in quanto si tratta pur sempre di un nuovo componente della famiglia da gestire. E poi occorrono la disponibilità ad aprirsi, la capacità di trovare il giusto registro di comunicazione da utilizzare, il saper delegare la gestione dei figli e della casa alla baby sitter.

Ringraziamo Stefano per aver condiviso con noi la sua esperienza.

A tutti quanti auguro Buona Fine e Buon Principio and see you all in the next adventure!


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